Il mondo invisibile del carcere: la pena della reclusione dagli affetti

Riflessioni sui miei colloqui in carcere

Mi piace condividere queste riflessioni su un tema a cui sto pensando da circa un anno, cioè da quando ho accettato di assistere un papà detenuto.

Lo assisto nella causa civile promossa dalla sua ex compagna per l’affidamento delle figlie.

Ogni volta che termino un colloquio in carcere, ne esco arricchita da una parte e intristita dall’altra. E sento il bisogno di condividere.

Una mattina di luglio

Così, una mattina di luglio, propongo alle mie figlie, per la prima volta, di accompagnarmi nel viaggio verso il carcere. Tutte e tre accettano, incuriosite dalla insolita proposta e – sono convinta – curiose di vedere un carcere da vicino. Anche se sanno di non poter entrare, naturalmente.

Arrivate sul posto, le mie figlie attendono nella sala di fianco al “gabbiotto” di ingresso, dove io vengo identificata, lascio il documento, poi attraverso un grande cortile assolato, le guardie registrano il mio passaggio e salgo al primo piano, dove si apre – quasi per “magia” – un portone automatizzato; dopo l’annotazione della mia presenza, la guardia mi accompagna in una saletta dove attendo il mio cliente, Francesco, che presto arriva.

“Qui siamo tutti uguali avvocato, sa?”

La prima cosa che fa Francesco è ringraziarmi per il dono del colloquio, che molto raramente riceve, considerato che, da quando è in carcere, non ha più una compagna e che solo una delle sue figlie è diventata, da poco, maggiorenne e quindi può fargli visita in autonomia. La lontananza da casa e le difficoltà di spostamento, però, non le permettono di andare dal padre di frequente.

Francesco non ha più i genitori, ha un fratello, con cui non ha rapporti da molto tempo.

Francesco aveva un solo amico, che è venuto a mancare da qualche mese ed al cui funerale non è potuto andare, ovviamente.

Grazie al lavoro in carcere e agli studi universitari che, sempre in carcere, ha iniziato, Francesco si sente occupato e pensa un po’ meno alla sua condizione.

L’incubo rinasce puntualmente quando la giornata volge al termine, il rumore metallico del chiavistello chiude il mondo alle sue spalle e apre alla solitudine, spietata compagna della sera e della notte.

Il Ruolo del Mediatore Familiare nei Conflitti tra Coniugi | Studio Legale Romina Anichini

“Qui siamo tutti uguali avvocato, sa?” mi dice con tono quasi saccente.

“Quando sento la chiave che gira, si chiude il sipario e si apre la tragedia dell’umanità reclusa. Si sentono silenzi, ma anche grida. E poi si sente il pianto di chi di giorno si mostra forte, con i suoi muscoli e i suoi tatuaggi”.

Mentre proferisce questa frase, si guarda e sorride per la sua magrezza e poi conclude “Qui siamo davvero tutti uguali”.

Queste parole mi risuonano nella mente e mi riportano ad un’altra frase, detta da Francesco in un altro colloquio: “nel mio reparto ci sono anche avvocati, ingegneri, medici….”.

Nella mia mente allora si forma l’immagine di un’umanità unica, di un’umanità che ha, tutta, la stessa natura, che prova lo stesso dolore, la stessa angoscia: dentro una cella siamo tutti uguali.

La solitudine è la stessa. Lo sconforto e la disperazione hanno lo stesso peso e valore. Non dipendono dal colore, dalla provenienza, dal ceto sociale, dal conto in banca, dal grado di istruzione, non dipendono da nessuna variabile.

Nel mondo del carcere vi è uguaglianza. Ed è il mondo che non conosciamo e che noi, liberi, non viviamo.

Termino il colloquio, anzi la conversazione con Francesco che mi ha mostrato anche i testi su cui sta preparando il prossimo esame e, orgoglioso, un “buono acquisti” di 50 euro ricevuto dalla cooperativa per cui lavora e che consegnerà alla figlia grande, quando verrà a trovarlo.

Francesco non aveva bisogno di buoni acquisti quando era libero, ma di questo non sembra provare rimpianto, bensì riconoscenza verso chi lo ha ritenuto meritevole di quel dono.

Il viaggio di ritorno: cosa ci portiamo a casa?

Esco, facendo il giro inverso, da quel labirinto di corridoi, scale e portoni di ferro e torno dalle mie figlie che mi aspettano nei locali adiacenti al “gabbiotto” all’ingresso.

In silenzio, saliamo in macchina e, durante il viaggio verso Modena, chiedo loro; “cosa ci portiamo a casa, ragazze?”

La quindicenne aveva notato i borsoni dei parenti in attesa di avere il colloquio con il familiare detenuto. Dall’espressione del suo volto, letta dallo specchietto retrovisore, capisco che ha intuito che quei borsoni portano un po’ di “casa” in cella, portano un pò di quotidianità, di routine, di cose la cui essenzialità è scontata per chi sta fuori. Francesco, il mio cliente, lamentava la mancanza della sua “tuta da casa”.

Sento poi la diciassettenne sollevata quando, a bassa voce, si dice “almeno possono vestirsi come vogliono”, frase che nell’immediato mi fa sorridere perché penso a quanto sia importante, per lei adolescente, l’outfit, ma subito dopo ci ripenso e credo che la sua osservazione non abbia nulla a che fare con il lato estetico, quanto piuttosto con la dignità della persona.

La dignità della persona detenuta di mantenere la propria unicità di individuo, la propria storia, fatta di cadute rovinose – senza dubbio – ma anche di piccoli progressi e quindi di crescita. Francesco ne è un esempio.

La più grande non dice nulla. Io la associo alla figlia più grande del mio cliente, perché ne è coetanea e cerco di immaginare quello che può significare per una ragazza di quell’età andare in carcere a trovare una persona cara, un genitore. Ragazza che sta giungendo all’età adulta e che scopre che chi è stato il suo riferimento, per tutta l’infanzia e l’adolescenza, può fallire.

Mia figlia maggiore continua a non dire nulla, forse riflette. Mi preme rompere quel suo silenzio per aggiungere che Francesco (che ovviamente è un nome di fantasia) sta preparando gli esami universitari – proprio come lei – nonostante l’età non più giovane e nonostante il carcere. Ed ottiene anche ottimi voti.

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Che cosa mi porto io? Tristezza, speranza e gratitudine

Io porto con me la tristezza di quelle stanze infuocate dal sole tagliato dalle inferriate. La malinconia negli occhi di Francesco che, nonostante le stanze infuocate, si presenta con una camicia a maniche lunghe per non mostrarmi – credo – il suo ulteriore dimagrimento.

Mi porto anche la tenerezza delle parole delle mogli, delle compagne, scritte sulle buste appoggiate sulla scrivania della guardia, divise per reparto, e dei disegni colorati dei bambini dei detenuti, anch’essi divisi per reparto.

Tristezza e speranza mi porto. La speranza che chi è dentro non perda l’occasione di crescere e non si lasci sopraffare dalla solitudine; la tristezza che chi è fuori non possa conoscere quel mondo e non abbia l’opportunità, conoscendolo, di riflettere per migliorarsi.

Io sono grata a Francesco per avermi dato questa opportunità.

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